Medico Psichiatra Psicoterapeuta
Perché ho scelto la Gestalt?
Perché mi piace, mi corrisponde come approccio, come tipo di terapia, come stile e per l’ideologia che la sottende, perché è un modo di comunicare diretto, personalizzato, non ambiguo, perché permette di esprimere tutti e due gli emisferi, perché è immediata e altamente comunicativa, perché è veloce, perché è sistemica più che sistematizzata e c’è tanto da lavorare, perché è analogica e immaginativo corporea più che rigidamente logica, perché è in divenire e non si è sclerotizzata in un manuale per addetti ai lavori rigido e ortodosso, ma si nutre costantemente degli apporti fecondi delle nuove generazioni di gestaltisti, perché praticarla è un’arte e quindi ognuno può darle una coloritura di stile diversa a seconda della propria personalità ed esperienza professionale, perché non c’è giorno in cui io stessa non impari qualcosa nel contatto con gli altri, perché è così poco dogmatica che digerisce i propri errori via via che le neuroscienze, con la psicofisiologia del cervello, apportano preziose nuove informazioni sul funzionamento della mente umana, perché ancora mi diverte, perché non spiega ma permette di sperimentare, di sentire, di mobilitare cambiamenti, perché integra i diversi approcci e mette in gioco il corpo.
E ancora…
Perché spinge all’assunzione di responsabilità, alla presa di coscienza, a un adattamento creativo all’ambiente, perché non è dogmatica né condizionante, perché allarga la visione e aumenta i gradi di libertà possibili…
Perché mi è consona la componente dionisiaca che c’è nella Gestalt, il senso liberatorio dell’istintualità, della decriminalizzazione del desiderio, dell’integrazione del bambino interiore.
L’Eros nella società cattolica in cui viviamo è ancora sotto colpa più di quanto si possa immaginare, come lo sono il piacere e il desiderio. La storia del frutto proibito: la mela mangiata da Adamo ed Eva e la relativa punizione si può interpretare come la curiosità eccessiva, come il bisogno di trasgressione, il bisogno di essere simile a Dio, sono qualcosa che non si deve fare, secondo la visione cattolica che ancora ci permea [...] Il piacere è addomesticato molto nella nostra cultura occidentale, si controlla precocemente la natura del bambino; è se importante avere il controllo ed avere dei limiti, come per guidare una macchina bisogna conoscerne il funzionamento, conoscere, rispettare il codice della strada, bisogna altrettanto godere del piacere del guidare un mezzo, non si deve confondere il rispetto delle regole con la condanna del piacere.
La Gestalt è l’integrazione della spontaneità con la capacità di un controllo emozionale sano.
Nella Psicoterapia della Gestalt il rapporto individuo-ambiente è fonte di crescita e di stimolazione. L’elemento fondamentale di tale rapporto è il contatto. Il contatto è dato dalla capacità dell’individuo di rispondere in modo creativo e flessibile con persistenza e chiarezza, all’interno di un ambiente che suscita interesse e corrisponde ai nostri bisogni. Secondo Erving e Miriam Polster il contatto è di per sé un processo di crescita e di cambiamento che coincide con l’esperienza. Con il termine esperienza intendiamo tutte quelle azioni, o sistemi di contatti, che l’individuo, posto all’interno di un sistema, inevitabilmente sperimenta. Il contatto è in definitiva lo scambio tra l’individuo e l’ambiente.
Il contatto avviene al confine e delimita il sé dal diverso da sé. Al valore dell’azione e dell’esperienza i Polster hanno aggiunto il valore del lavoro sulle modalità di resistenza al confine di contatto. Le modalità di resistenza sono un adattamento creativo della persona alle difficoltà dell’ambiente.
Quando ho iniziato ad insegnare la mia idea ed ispirazione è stata quella di mettere insieme tutta la conoscenza acquisita attraverso il cammino di studi che è passato attraverso la cultura medica, psichiatrica, l’analisi junghiana, i seminari freudiani, la scuola di Gestalt e quella di Bioenergetica, i seminari di terapia sistemica. Mi sono ritrovata con un bagaglio straordinario di possibilità e con lo sguardo sul paziente o sull’allievo, che poteva spaziare tra una pluralità di prospettive.
liberamente tratto da un seminario di Sergio Mazzei
La Gestalt è una teoria secondo la quale i nostri processi percettivi si organizzano spontaneamente in insiemi strutturali significativi, di modo ché la percezione della totalità si dimostra diversa dalla percezione della somma delle sue parti. Questo è un concetto acclarato in molti altri campi dello scibile; ad esempio in chimica l’idrogeno (H) e l’ossigeno (O2) non sono l’acqua (H2O); allo stesso modo nella nostra esperienza di vita una parte in un tutto è differente dalla stessa parte presa isolatamente o inserita in un contesto diverso.
Per comprendere un comportamento non basta analizzarlo, o magari confrontarlo, ma occorre sviluppare una visione che includa l’insieme -assai più vasto!- del contesto globale in cui avviene.
Da quanto sopra consegue che con il termine Gestalt possiamo indicare anche una prospettiva nel porsi in contatto con la vita; prospettiva nel senso di pratica di consapevolezza con la quale riusciamo a convogliare le nostre energie nella sola dimensione in cui l’essere umano ha potere, ossia nel presente e nel contatto con gli altri.
Per la Gestalt presenza, consapevolezza e responsabilità sono i presupposti fondamentali del processo di crescita. Essa offre un percorso con cui arricchire di significato, oggettivo e soggettivo, la nostra esistenza nel mondo.
La Gestalt come terapia non è una tecnica in sé, e nemmeno può essere definita un insieme di tecniche; semmai è un metodo. In tale accezione, riferendoci alla relazione d’aiuto, il terapeuta, conduttore o facilitatore è considerato in quanto persona, al di là del suo ruolo; è questo che si intende con il focalizzarsi sulla relazione, ossia quella in atto col cliente.
Si tratta senza dubbio tanto di una prospettiva rivoluzionaria quanto di un intento ambizioso, ma anche della strada più diretta per far emergere allo scoperto meccanismi distorti di relazione e difese psicologiche verso figure di riferimento disturbanti. L’attenzione alla relazione si rivela inoltre il sistema più consapevole per generare nel cliente un’esperienza emozionale correttiva dei traumi pregressi da cui ancora continua a proteggersi.
Studiando la Gestalt scopriamo che il passaggio centrale e indispensabile della nostra salute psichica è accettare il nostro vissuto, soprattutto emozionale, nel presente e nella relazione. Senza vagheggiare di stati atarassici o di pace misticheggiante, possiamo immaginare un equilibrio dinamico in cui impegniamo e liberiamo le nostre forze in fasi successive, con un andamento quasi circolare.
Il contatto interpersonale suscita sentimenti e questi sentimenti veicolano energia; quando la relazione è ‘distorta’, facciamo esperienza di una sorta di svuotamento di sicurezza che può arrivare a lasciarci spossati o paralizzati; di contro, nel medesimo contatto con l’altro, l’espressione di sé produce libertà; questa libertà permette alla creatività di sostituire le strategie e gli schemi di adattamento difensivo.
In questo si sostanzia la proposta della Gestalt: condurre la nostra esistenza come un cammino di scelta responsabile dove le nostre esperienze -la nostra vita di organismi- si unifica con quello che “accade” nel mondo attorno a noi. Non è un obiettivo facile da raggiungere: abbiamo sopra accennato che richiede la visione del contesto globale, ma forse dovremmo meglio parlare di una particolare consapevolezza da sviluppare.
La consapevolezza di cui abbiamo bisogno nasce nella relazione, ma non solo dall’osservazione e dall’ascolto degli altri, bensì in primis di se stessi; il suo humus è l’esperienza composita del contatto con l’ambiente, con le persone e con le proprie esperienze vitali, fisiche ed emozionali.
Di cosa dovremmo diventare consapevoli? Potremmo cominciare ad accettare il ciclo con cui impegniamo o liberiamo le nostre forze (vedi sopra). L’energia sostenuta dalle emozioni, quando le diamo forma espressiva, diviene realtà percepibile, permettendo uno scambio migliore fra l’essere umano e il mondo esterno. Se accettiamo di considerare i problemi come situazioni di impasse determinate da schemi ripetitivi, possiamo accorgerci che la creatività liberata riconfigura gli schemi trovando soluzioni inaspettate.
Gli ostacoli nella propria realizzazione o le difficoltà di relazione possono così diventare occasioni per trasformare in modo più maturo e responsabile la propria realtà.
Ecco: responsabile. La responsabilità personale è una questione centrale nella Gestalt. Questione sempre aperta nel corso della vita, perché la responsabilità nei confronti di se stessi è il gradiente del percorso di crescita -nonché di maturità!- personale.
Quanta più responsabilità siamo disposti ad assumerci verso la nostra vita, tanto più ne diveniamo padroni; di conseguenza, tanto meno ci sentiamo vittime delle situazioni: impotenti, rancorosi o rassegnati. Essere responsabili di qualcosa significa che “siamo noi a pensarci”.
Saper interpretare il significato della parola responsabilità è rivoluzionario per la nostra intera cultura.
Tradizionalmente significa “rispondere delle proprie azioni”, ma la questione è “A chi?”. Se dobbiamo rispondere di noi sempre a qualcun altro, alla gente, alla società, alla Legge, a Dio, allora non è vera responsabilità, ma è subordinazione. Niente cambierà finché non impariamo a rispondere della nostra vita di fronte a noi stessi.
Il percorso di guarigione deve riscattare il senso di responsabilità da quell’accezione colpevolizzante e retroattiva in cui è stata ridotta.
Siamo stati abituati a pensare che responsabilizzarsi significhi imparare a comportarsi secondo determinate regole e aspettative altrui, secondo un giudizio di giusto/sbagliato da accettare anche quando non ci corrisponde, e infine essere disposti a pagare, per i nostri errori e trasgressioni, non una volta, ma a tempo indeterminato, senza possibilità di riparazione. Ci responsabilizziamo come davanti a un tribunale cui dobbiamo rendere conto del nostro discredito.
Un sistema simile è un’istigazione alla de-responsabilizzazione.
Invece la prima assunzione di responsabilità personale è quella di essere giudici e arbitri delle proprie scelte.
Questa è una polarità di due termini che la Gestalt ha adottato dal gergo anglosassone e che possono essere tradotti liberamente come il Capo Branco e lo Scagnozzo.
Dentro la nostra psiche abitano diverse caratteristiche strutturate come sotto-personalità e legate a diversi complessi di esperienze.
Sopra a tutte le altre però ce n’è generalmente una, che ha una funzione di comando, purtroppo dispotico, accusatorio e vessatorio, che è appunto quella chiamata “Top Dog”.
È lui il nostro Giudice più spietato, che indaga, ci accusa e ci condanna senza appello, più severo che con chiunque altro e di chiunque altro.
È difficilissimo –ma è fondamentale– accettare di riconoscersi in questo ruolo auto-persecutorio, appunto in quanto siamo abituati a deresponsabilizzarci e a viverci nel ruolo della vittima, a immedesimarci nello “Scagnozzo”, tartassato ingiustamente dal destino.
Proprio riprendendoci la parte del “persecutore” interno, noi possiamo liberarcene (e liberarlo a sua volta), perché ammettendolo e recuperandolo in noi, ne acquisiamo anche tutto il potere.
Non solo, ma in questa operazione possiamo riconoscere nel nostro Giudice tutti i modi di fare e di pensare, tutti gli atteggiamenti, le convinzioni, la mentalità, che non erano nati da noi, ma dal sistema emotivo di controllo in cui siamo cresciuti e che abbiamo introiettato.
Quasi sempre alla base del disagio psicologico riusciamo ad identificare un conflitto intrapsichico, sia che si esprima in modo diretto (ansia), sia indiretto (depressione), ramificandosi man mano in forme complicate, tortuose, mimetiche, labirintiche al punto da riuscire a far perdere le proprie tracce.
Il conflitto può derivare dall’ambivalenza rispetto a due spinte incompatibili tra loro, ma molto più spesso deriva dal nostro rifiuto di un’ambivalenza. Vediamo di capire come.
Osserviamo le immagini presentate in questa pagina: in ognuna di esse si possono distinguere oggetti diversi a seconda di dove preferiamo puntare l’attenzione: colori scuri o chiari, figure o sfondo, una direzione o l’altra… Ci troviamo di fronte a delle rappresentazioni che coesistono e possiamo considerare coppie ambivalenti, ma non per questo in conflitto.
Però la nostra percezione è limitata, perciò siamo ‘costretti’ da una necessità fisiologica a scegliere tra l’una o l’altra rappresentazione come se solo una delle due possibilità fosse vera o falsa, giusta o sbagliata. Le due figure non sarebbero in realtà in attrito, ma prevale la nostra necessità sceglierne una sola, eliminando l’altra.
Come nella percezione visiva, per la Gestalt anche nelle altre esperienze l’origine del conflitto si riconduce a una nostra rigidità e scarsa creatività nell’adattamento. Il conflitto nient’altro è se non la difficoltà –o il rifiuto– di rispondere liberamente alle necessità di diversi ambienti con cui entriamo in relazione.
Come si declina questa mancanza di libertà? Molta dell’energia che potrebbe essere impiegata per un creativo adattamento in situazioni che sentiamo squilibranti viene consumata nel combattere e sopprimere il conflitto in sé. Tale è la ferocia del contrapposizione che può condurci a vere malattie invalidanti.
Possiamo mai sperare di risolvere il conflitto in cui ci siamo incastrati? Possiamo se accettiamo l’idea che l’incompatibilità che vediamo tra le polarità di un conflitto appartiene quasi solo alle nostre categorie mentali e ai filtri attraverso cui elaboriamo la realtà: la differenza tra un adattamento creativo e un adattamento fobico sta nella rigidità in cui quest’ultimo cerca una coerenza.
L’ambivalenza, anche conflittuale, può essere invece la via per confrontarsi, al di là degli schemi, con la complessità del mondo esterno e con quella dei propri sentimenti, liberandosi da condizionamenti preconcetti.
Attraversare il conflitto può così rivelarsi una fonte di molteplicità e versatilità che arricchirà la rappresentazione che abbiamo di noi stessi.
Il sistema di de-responsabilizzazione in cui ci formiamo prevede un’inversione e una confusione di prerogative tra sé e gli altri.
Proiettiamo nello sguardo degli altri i giudizi e i pregiudizi del tribunale mentale presente al nostro interno. Incolpiamo gli altri dei nostri problemi e, nei casi peggiori, attribuiamo agli altri proprio le cose che rifiutiamo di noi stessi: guardiamo la proverbiale pagliuzza nell’occhio altrui per non vedere la nostra trave.
Siamo anche disposti oltremodo a responsabilizzarci per gli altri, pur di non assumerci la responsabilità della nostra vita.
Nel nostro affacciarci al mondo delle relazioni in cerca di punti di riferimento assorbiamo in modo acritico convinzioni e pregiudizi e lasciamo che prendano il governo incontrastato dei nostri pensieri e automatismi decisionali.
Le ragioni della dipendenza sono molteplici, legate tutte alla convinzione di non essere “abbastanza”: non abbastanza capace, non abbastanza intelligente, non abbastanza sicuro, non abbastanza sano, apprezzabile, equilibrato, ecc. Da questi motivi consegue la convinzione di aver bisogno di qualcuno che compensi la nostra incapacità di stare bene al mondo, la nostra inadeguatezza alla vita indipendente.
Questa sorta di pregiudizio che abbiamo su noi stessi, è il prodotto di un’accettazione condizionata con cui ci siamo sentiti accolti nel mondo, sono convinzioni assorbite rinunciando alla propria crescita come adulti in cambio di protezione e amore, non importa se frutto di messaggi realmente ricevuti o fraintesi.
Autonomia significa regolarsi da soli e, per poter far questo, occorre sapere cosa è buono per sé e cosa non lo è.
Sembra una prospettiva difficile considerando che i bambini non vengono educati a sviluppare questo discernimento. Sono gli adulti in genere che decidono cosa va bene per i piccoli.
Solo che, in realtà, nessuno meglio di te può sapere di cosa hai veramente bisogno.
Se manca questa presa di coscienza, vedremo sempre l’altro come un tutore che può esentarci dalle nostre scelte.
Scegliere è il nostro modo di definirci, ma anche il modo di scoprire chi siamo e di riconoscerci.
Autonomia non significa autarchia, autosufficienza, non significa, cioè, non aver bisogno di niente e di nessuno. Questa è un’illusione di onnipotenza, spesso una difesa “contro-dipendente” dalla paura del potere dell’altro.
Piuttosto l’autonomia è basata sulla capacità di provvedere a se stessi, cioè di auto-sostegno, che include anche la capacità di riconoscere quando si ha veramente bisogno, la capacità di chiedere, quando è il caso, e anche la capacità di rifiutare un aiuto che non corrisponda alle nostre esigenze.
Autonomia dunque è il potere di aprirsi agli scambi con gli altri per procedere meglio sulla propria strada.
Per tutti.
Per persone sofferenti di disturbi fisici, psichici, per sintomi psicosomatici, ansia, depressione, attacchi di panico, anoressia, bulimia, dipendenze affettive e da sostanze, disturbi di personalità.
Per chi ha problemi esistenziali: lutti, separazioni, senso di incapacità, di insicurezza, problemi sul lavoro, problemi di leadership, senso di incapacità, demotivazione.
Psicoterapia individuale.
Psicoterapia di coppia-familiare.
Psicoterapia di gruppo.
Psicoterapia istituzionale – scuola – ospedali.
Coaching in ambito aziendale sia industriale che commerciale.
Per lo sviluppo del proprio potenziale creativo.
Più in generale, per qualunque persona o gruppo o azienda che ricerchi un migliore assetto esistenziale o desideri esprimere appieno il proprio potenziale.
L’esercizio della consapevolezza avviene attraverso l’uso di vari strumenti terapeutici:
La Gestalt Analitica è un approccio integrato che si avvale dei contributi della terapia della Gestalt di F. Perls e di quelli della Psicologia Analitica di C. G. Jung.
Insieme al Prof. Donadio, al Dott. Stefano Crispino e altri colleghi abbiamo fondato nel 1986 l’A.I.G.A., una scuola di Gestalt Analitica che sarà poi riconosciuta come scuola valida per la formazione di terapeuti con l’entrata in vigore della legge sulla regolamentazione della psicoterapia.
Dal rilievo fatto sul campo della mia esperienza clinica, di quella psicoterapeutica e dall’esperienza dei colleghi è nata la spinta alla fusione di questi due approcci.
L’assunto gestaltico di base secondo il quale esistono solo bisogni e necessità attuali e l’hic et nunc sono per la Gestalt le uniche cornici spazio temporali entro cui intervenire per trattare la struttura della nevrosi e della dinamica contatto/ritiro. Questo ci è sembrato che comportasse il rischio che la Gestalt si concretizzasse come una terapia sintomatica e che perdesse profondità e pluralità di visione.
L’integrazione con la visione junghiana aggiunge ricchezza immaginativa, prospettiva storica e antropologica e trova delle soluzioni, allargando lo sfondo di base e creando un orizzonte più ampio.
Gli elementi fondamentali, mutuati dalla psicologia analitica, riguardano il concetto di inconscio personale e collettivo, la presenza del transfert e del contro-transfert, il concetto di Anima e Animus, l’aspetto Ombra, il recupero del valore della parola ed il ruolo del terapeuta.
Noi crediamo che la radice ultima dei bisogni attuali dell’uomo risieda nella storia di ognuno, storia che presenta però aspetti individuali (inconscio personale) ed elementi ancestrali comuni a tutti gli individui e a tutte le culture (inconscio collettivo) rappresentati attraverso i miti.
Nel quadro di questa doppia storicità, tali bisogni si manifestano, negoziano ed eventualmente si realizzano entro le costellazioni relazionali del presente. In tal senso ci sembra che la psicologia analitica recuperi all’interno di una visione fenomenologica, nel quale il presente è il luogo centrale della cura, la dimensione dinamica del passato e la visione prospettica del futuro.